D'un tratto nel folto bosco

Non c’era nessuno in tutto il paese che potesse insegnare ai bambini che la realtà non è soltanto quello che l’occhio vede e l’orecchio ode e la mano può toccare, bensì anche quel che sta nascosto alla vista e al tatto, e si svela ogni tanto, solo per un momento, a chi lo cerca con gli occhi della mente e a chi sa ascoltare e udire con le orecchie dell’animo e toccare con le dita del pensiero.
Amos Oz


mercoledì 6 marzo 2013

E' LA FINANZA CHE CI VUOLE ALLA FAME


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di Maurizio Blondet

Finalmente anche i grandi media - con un paio di settimane di ritardo sul nostro sito - si sono accorti che nel mondo manca il cibo, e che nei Paesi della povertà scoppiano tumulti per il pane (o il riso) rincarato.

Ovviamente, forniscono il risaputo elenco di cause: aumentati consumi cinesi e indiani, global warming, cereali destinati a bio-carburante anzichè all’alimentazione; e infine, la «speculazione»: gli investitori speculativi (hedge fund) sono lì a guadagnare sui rincari, puntanto su ulteriori rincari e con ciò provocandoli.

Ma tacciono la causa primaria della carestia avanzante, che è la dittatura globale della finanza, di un’economia in cui i valori sono esclusivamente monetari.

La finanza, semplicemente, odia l’agricoltura.

La odia da sempre.

Perchè?

Anzitutto perché l’agricoltura non consente i profitti del 20-30% almeno che la speculazione esige ed ottiene dalle «industrie», specie «avanzate», e dai trucchi del marketing. Una tela blu che si produce a chilometri e costa quasi nulla, confezionata in un jeans che costa alla fabbrica forse 1,5 euro, si può vendere a 200 euro se vi si appone il marchio Dolce & Gabbana: questo sì che è profitto, ragazzi!

L’industria può essere incitata a produrre più merci con costi minori (meno lavoratori, più «produttivi»).

I «servizi», specie quelli immateriali, possono rendere il 40-50%.

L’agricoltura no.

Resta inchiodata, con ostinazione primordiale, ai rendimenti «naturali»: 3-4%, magari 8-10% per colture «pregiate», o che il
marketing riesce a dichiarare pregiate.

Dal punto di vista della finanza, «non conviene» investire nella produzione agricola.

Aumentare il concime chimico sui campi, spendere di più in gasolio per i trattori e in benzina per gli aerei da inseminazione estensiva, non porta ad aumenti di produzione proporzionale.

Soprattutto, il maggiore investimento non accelera la produzione.

Per quanto concime si butti, il grano ci mette sempre un
anno a maturare.

Per quanti ormoni inietti nella vacca, per quanto la alimenti di soya, quella non farà il vitello che nei soliti nove mesi.

Questa lentezza fa impazzire di rabbia gli usurai.

Tanto più li esaspera la coscienza torbida che tutti i loro «valori» -
quelli quotati in Borsa e sui «mercati» - dipendono, in ultima analisi, da quel solo valore, il cibo, prodotto con quella lentezza naturale.

Il dollaro e l’euro non valgono quello che dicono i «mercati», se il grano rincara (com’è avvenuto) del 200% in sette anni:
valgono del 200 % in meno.

Le azioni, le obbligazioni, i derivati, incommestibili, perdono ogni valore per la gente che non ha da mangiare.

Ma quello che davvero li manda in bestia è questo fatto: che, per giunta, le messi e i raccolti sono un dono.

Qualcuno, alla base dell’economia, regala le cose: ciò davvero fa’ rabbia agli usurai.

Sì, il contadino si affatica, spende e s’indebita per comprare carburanti e concimi; ma il processo di fabbricazione, quello per cui il seme diventa una spiga che moltiplica i semi, o un fiore si tramuta in albicocca turgida, non è lui a padroneggiarlo.

Avviene da sè.

Ed è gratis.

Il contadino lo sa benissimo, e quando vede il suo grano dorare, lo chiama «questo ben di Dio».

Il che è, per la finanza, imperdonabile.

Il contadino, posta in opera tutta la sua tecnica e la sua sapienza e il suo lavoro perchè il dono annuale possa avvenire, poi, prega: che la grandine non devasti il frutteto, che il verme non roda l’uva e le grandi foglie del tabacco.

Altro riconoscimento che il prodotto, alla fine, non dipende da lui.

Altro fatto degno della massima punizione.

Non sto idealizzando il contadino.

Quand’ero ragazzino (parliamo di cinquant’anni fa’), ho passato estati in casa di parenti contadini toscani, e due cose mi stupivano di loro: quanto bestemmiassero, e quanto mancassero di quattrini.

Non mancavano di cibo, nè lo lesinavano a me ragazzino che stava con loro un mese o più: il coniglio arrosto, l’uovo fresco, il pane con
l’olio, la zuppa di fagioli li davano con generosità, per loro non erano un costo, o non lo calcolavano, perché per loro era gratis.

Mancavano però di denaro contante: comprare un paio di scarpe era una rarità, persino il sale - che andava comprato - era una
spesa da fare oculatamente (il pane toscano è senza sale, come sapete).

La tavola era abbondante, ma il portafoglio era vuoto, e i contadini erano tirchi.

E bestemmiavano.

Ora capisco che le due cose sono in relazione.

E’ la finanza che ha fatto sempre mancare i soldi ai contadini.

Il mercato - quello vero - a cui portavamo i polli e le uova,
il grano e le pesche, non pagava che il minimo indispensabile.

In contanti, l’uovo valeva poco o nulla.

Si tornava dal mercato con pochi spiccioli, bestemmiando.

Anche voi bestemmiereste: tanta qualità di lavoro qualificato - perchè il contadino toscano possedeva conoscenze stupefacenti sulla rotazione agricola, sul trifoglio che fertilizza la terra mentre nutre le
vacche, sulla luna esatta in cui fare gli innesti, su una quantità di segreti e misteri che da ragazzino mi sarebbe piaciuto imparare - e tanto mal compensato.

Oggi, nella finanza, questi saperi si chiamano «know-how», saper-come-fare, e sono apparentemente molti apprezzati; la realtà
è che sono apprezzati (in milioni di euro) il know-how del pubblicitario e della velina, dello speculatore Soros e dell’usuraio, ma già il know how dell’ingegnere è pagato molto meno, e quello
del contadino meno di tutti.

Perché meno di tutti?

Come ho detto, perché l’aumento dell’«investimento» non ha rapporto con l’aumento del «prodotto».

Anzi peggio: il ciclo agricolo ideale consiste nel «risparmiare» gli investimenti, ridurli al minimo indispensabile in cui il dono possa avvenire.

Idealmente, è un ciclo chiuso di auto-produzione.

Il concime è un sottoprodotto del bestiame e degli uomini (sterco, urina, strame fermentante), che non costa nulla - e ci
mancherebbe che la cacca costasse.

Le sementi, una quota del raccolto messa da parte.

Mettetevi nei panni dello speculatore che vede il contadino tendere a non chiedere capitale per comprare il concime, perché
lo strame delle sue mucche glielo dà gratis.

Il suo pensiero è: Crepa allora, villano!

Ti faro sputare sangue!

E infatti, sin dall’alba della storia, l’agricoltura è il settore più radicalmente espropriato.

Perchè, pur essendo il settore su cui si basa tutta l’economia monetaria (non a caso è definito «settore primario»), essa è
sostanzialmente estranea all’economia.

E’ «altro», è la fonte primaria di «abbondanza».

In essa, il lavoro umano non si misura ad ore, è fatica estrema che nessuna moneta può pagare, né nessuna Moody’s valutare:
esattamente come il travaglio della mamma che partorisce un nuovo uomo.

Sicchè, da sempre, gli usurai hanno fatto di tutto per indebitare l’agricoltore.

Da sempre, lui mancando di soldi per le scarpe e il sale, gli hanno comprato il grano in erba, naturalmente con uno sconto:
il tuo grano maturo varrebbe cento? Te lo compro sul campo, però a 40.

Sai, se grandina, mi accollo il rischio finanziario...

Il contadino, bestemmiando, china il capo.

L’acquisto del grano in erba, che verdeggia sul campo, è il primo «future», il primordiale «prodotto finanziario derivato», su cui tutti gli altri sono modellati.

Oggi che la finanza esercita la sua dittatura totale e incontrastata sul mondo, l’esproprio agricolo tocca ovviamente il limite estremo.

Contadini indiani conoscono da millenni una pianta che produce
naturalmente un pesticida?

La ditta di bio-tecnologie quotata in Borsa si affretta a brevettarlo: ora i contadini indiani dovranno comprare il loro pesticida alla ditta di Wall Street.

Bisogna impedire al contadino di avere le sue proprie sementi: ecco la
Monsanto offrirgli quelle brevettate, ibridi, OGM, ossia sterili.

I chicchi che produce il grano OGM, anche seminati, non danno
frutto.

Ogni anno il contadino dovrà ricomprare le sementi.

A credito.

E’ tutto così, naturalmente: l’offerta di concimi chimici, di macchinari, di biotecnologie, il marketing, le asscurazioni contro la grandine (così non avrai bisogno di pregare, villano), tutto è teso allo scopo unico: finanziarizzare l’agricoltura, renderla asservita al debito e al denaro, estrarne profitti innaturali.

Naturalmente, la liberalizzazione mondiale dei commerci, imposta dal
guardiano WTO della finanza, e dalle burocrazie sue serve strapagate, ha lo stesso scopo: trasformare il cibo totalmente in merce
esportabile, dunque pagabile.

Perchè coltivate grano e producete latte in Europa, dove la manodopera costa, e l’agricoltura è diventata anti-economica (a
forza di investimenti)?

Compratelo dalle zone del mondo dove il grano costa meno, è «competitivo», è «concorrenziale».

Volete perseguire l’autosufficienza alimentare?

Vecchie sorpassate teorie, autarchiche.

Anzi peggio: la battaglia del grano era fascista, dunque è il Male Assoluto!

Oggi c’è il libero commercio, il gran mercato che vi offre tutte le merci al prezzo più competitivo!

Così, l’eurocrazia ha abolito i sussidi all’agricoltura europea.

Ha pagato altri sussidi, a dire il vero: ma per ammazzare le vacche, ha
pagato per lasciare incolti i campi - e sono di colpo finiti i surplus.

Caso strano, in USA invece i sussidi all’agricoltura sono stati promossi, ma per uno scopo: per i bio-carburanti.

Produci mais da biofuel, e noi ti copriamo i costi, ha detto la finanza (con la voce della Casa Bianca) al contadino: e lui s’è buttato, il 16-18% dei terreni americani produce per il biocarburante.

Per mettere 50 litri di bio-etanolo nel serbatoio dell’auto, si consumano 238 chili di granturco.

Sussidi di Stato tornano, ma per la speculazione, per la finanza monetaria.

E il mais da etanolo si potrebbe seminare su terreni marginali; ma no, vogliono che occupi i terreni primari, buoni per l’alimentazione umana.

Non è certo un caso.

Perchè il modo ultimo, finale e definitivo, per finanziarizzare l’agricoltura, è provocare la scarsità.

Allora ciò che nasce gratis ha finalmente un «valore» quotato.

E permette di estrarre profitti favolosi.

Finalmente il frumento sale come le azioni, il 200% in otto anni!

L’Etiopia importa granaglie per l’88% dei suoi consumi, il Niger per l’81%; e la gente lì spende il 70% del suo reddito solo per nutrirsi.

Il rincaro del 200% sul cibo, là, è una pura e semplice tragedia.

Moriranno di fame, perchè gli hanno detto che «era meglio» comprare le granaglie da fuori, anzichè coltivare il miglio e la
manioca da autoconsumo.

Ai governi che, come l’egiziano o il vietnamita, hanno bloccato le esportazioni delle loro granaglie, le grandi banche mondiali intimano: «Non date sussidi agli agricoltori!
Non bloccate il libero commercio col vostro protezionismo!».

Il WTO li multerà, per il delitto di sfamare la propria gente.

Il vero problema, filosofeggia il Telegraph, è «malthusiano»: ci sono troppe bocche da sfamare nel mondo.

Siamo già alla profezia di Alfred Jarry, l’inventore della patafisica.

Egli fa dire al suo Re Ubu, prototipo del governante d’oggi, infinitamente stupido e ridicolmente arrogante: «Lorsque j’aurai pris
toute la phynance, je tuerai tout le monde et je m’en irai».

Ossia: «Quando avrò preso tutta la fynanza, ammazzerò tutti e
me ne andrò».

Non dice «finanza» ma «fynanza», è qui il sarcasmo di Jarry, inventore di parole e di personaggi fantastici più veri del reale.

Inventò il dottor Faustroll, scopritore della patafisica, la neo-scienza più inutile mai esistita.

Inventò la parola «Merdre», che è quel liquame in cui siamo, e non sappiamocome definire.

Profetizzò, come si vede, lo scopo della «phynance»: ammazzare tutto il mondo e poi andarsene.

Dove?

Boh!...


Maurizio Blondet

fonte:http://files.meetup.com/
313670/La%20finanzia%20odia%20l%27agricoltura%20di%20M.%20Blondet.pdf

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